Quando l’odio parla dell’altro, ma tace di noi stessi
Beatrice LencioniCondividi
C’è un’immagine che mi torna spesso alla mente: una persona che, tornando a casa dopo una giornata stancante, sbatte la porta, trova un bicchiere fuori posto e inizia ad arrabbiarsi con chi vive con lei. Non è davvero il bicchiere il problema, né la persona che lo ha dimenticato lì. È che dentro c’è una stanchezza, un senso di impotenza, una povertà emotiva che non trova parole e cerca un colpevole. Allora l’altro diventa il bersaglio più facile.
E se allarghiamo lo sguardo, ci accorgiamo che lo stesso meccanismo accade a livello sociale e culturale. Lo abbiamo visto tante volte in Italia, e il video di Floris che commenta le frasi di Vannacci ce lo ricorda: è più semplice puntare il dito contro qualcuno, costruire un nemico, piuttosto che fermarsi e guardarsi dentro.
La frase che guida questa riflessione è forte: “l’odio in Italia attecchisce perché il nostro paese è povero, si vede sempre l’altro ma mai se stessi”. Una povertà che non è soltanto economica, ma che tocca la nostra capacità di guardarci dentro, di assumerci responsabilità e di fare spazio a ciò che ci fa paura.
L’altro come bersaglio: specchio di una fragilità interiore
Quante volte ci è capitato di puntare il dito? A volte lo facciamo senza nemmeno accorgercene. Succede sul lavoro, in famiglia, tra amici. È un riflesso quasi automatico: se qualcosa non funziona, la colpa dev’essere di qualcun altro.
In politica e nei media, questo atteggiamento diventa un’abitudine: si cercano colpevoli facili — gli immigrati, l’Europa, i giovani che “non hanno voglia di fare”, o gli anziani che “pesano sul sistema”. In fondo, è un modo per evitare il silenzio scomodo che ci obbligherebbe a chiederci: e io, cosa sto facendo?
Nelle relazioni intime funziona allo stesso modo. Quando litighiamo con chi amiamo, è facile dire “sei tu che sbagli, sei tu che non mi capisci”. Molto più difficile è fermarsi a dire: “forse questa rabbia che sento parla di una mia paura, di un mio bisogno non riconosciuto”.
L’altro diventa così uno specchio che riflette le parti di noi che non vogliamo vedere. Ma invece di accettare quello specchio, lo rompiamo accusando chi ci sta davanti.
La povertà che non è solo economica
Quando diciamo che “il nostro paese è povero”, non possiamo fermarci al portafoglio. Certo, l’Italia vive di disuguaglianze economiche, precarietà, salari fermi. Ma c’è un’altra povertà, invisibile ma ancora più pericolosa: quella emotiva e relazionale.
È la povertà che nasce quando non sappiamo ascoltarci, quando non abbiamo imparato a dare un nome alle nostre emozioni, quando ci manca il linguaggio dell’intimità e della cura.
Quante coppie vivono insieme anni senza mai parlarsi davvero? Quante famiglie sono abitate da rancori che non si esprimono, ma serpeggiano sotto traccia, pronti a esplodere per un nonnulla? Quanti rapporti di amicizia finiscono perché nessuno trova il coraggio di dire “mi sono sentito ferito, parliamone”?
Questa è la povertà che lascia spazio all’odio. Perché dove non c’è comunicazione, cresce il sospetto. Dove non c’è fiducia, cresce la rabbia. Dove non c’è accoglienza, cresce il giudizio.
Guardare se stessi: il passo più difficile
In un percorso di counselling ho incontrato una persona che arrivava sempre arrabbiata. Raccontava di un partner che “non faceva mai abbastanza”, di colleghi “incapaci”, di amici “superficiali”. Dopo alcune sedute, lentamente, si è accorta che dietro quella rabbia non c’era davvero l’altro, ma la sua paura di non sentirsi adeguata, il timore di non essere abbastanza per nessuno.
È stato un momento di svolta. Non perché la rabbia sia sparita di colpo, ma perché ha iniziato a vedere che quell’odio verso l’altro parlava in realtà di lei. Ha imparato a fermarsi e a chiedersi: cosa sta raccontando di me questa emozione?
Guardare se stessi è il passo più difficile, perché significa spogliarsi delle maschere. Significa smettere di nascondersi dietro le accuse, e iniziare a sentire la propria fragilità. Ma è anche il passo più liberatorio, perché porta a riconoscere che l’altro non è nemico, è un compagno di viaggio che ci rimanda una parte di noi.
Odio e relazioni: un ciclo che logora
Pensiamo a un litigio di coppia. Si parte da una piccola incomprensione, magari una parola detta male. L’altro reagisce, si alza il tono. Qualcuno sceglie il silenzio, l’altro insiste. Pian piano si crea distanza. Se quella frattura non viene guardata, si sedimenta. E il rancore cresce, fino a diventare odio.
Lo stesso accade nelle amicizie, nei rapporti familiari, persino nelle comunità. L’odio non nasce da un evento improvviso, ma da un accumulo di piccole ferite mai curate.
E come accade in una relazione, anche nella società questo meccanismo porta divisione. Quando vediamo solo ciò che l’altro fa di “sbagliato” e mai la nostra parte nella relazione, smettiamo di costruire insieme. E la distanza si trasforma in muro.
Coltivare un’altra risposta
Ma se l’odio non è inevitabile, allora cosa possiamo fare?
Il primo passo è semplice, anche se non facile: fermarsi. Fare un respiro prima di rispondere. Dare spazio a un’emozione prima che diventi urlo.
Il secondo passo è ancora più importante: imparare a guardare l’altro non come nemico, ma come specchio. Ogni persona che ci provoca rabbia ci sta mostrando un punto che dentro di noi non è ancora pacificato. Non è facile accettarlo, ma è il seme della trasformazione.
In un percorso di counselling relazionale, questo diventa un esercizio costante: riconoscere le proprie emozioni, dar loro un nome, comprenderne il messaggio. Così l’altro smette di essere un bersaglio e diventa un compagno di crescita.
La responsabilità come atto d’amore
Responsabilità non è sinonimo di colpa. Anzi, è l’opposto. È la capacità di rispondere, di scegliere come stare in una relazione.
Ho seguito una coppia che era arrivata al limite. Ognuno accusava l’altro: “sei tu che non mi ascolti”, “sei tu che non mi ami abbastanza”. Un giorno, in seduta, ho proposto una sfida: e se provassimo a dire “io mi prendo la responsabilità di ciò che sento, di ciò che faccio, di ciò che porto nella relazione”?
All’inizio è stato difficile. Poi, lentamente, hanno iniziato a cambiare linguaggio: da “tu sbagli sempre” a “quando accade questo io mi sento…”. E da lì è nata una nuova possibilità di incontro.
Prendersi la responsabilità è un atto d’amore verso se stessi e verso l’altro. Significa smettere di sprecare energie nell’odio e investirle nel costruire.
Se senti che nella tua relazione l’odio o il rancore stanno prendendo spazio, puoi iniziare con un colloquio gratuito. È un primo passo per imparare a guardare dentro, non solo fuori.
Oltre l’Italia, oltre l’odio: il valore dell’intimità
Se l’odio attecchisce perché vediamo sempre l’altro e mai noi stessi, allora la via d’uscita è imparare a guardarci dentro, con sincerità e senza paura. Questo non vale solo per la politica o la società, ma per ogni relazione della nostra vita.
Nell’intimità di una coppia, nell’amicizia, nella famiglia, ogni volta che rinunciamo a vedere noi stessi, rischiamo di trasformare l’altro in nemico. Ma quando troviamo il coraggio di fermarci e chiederci “cosa mi sta insegnando questa difficoltà?”, allora apriamo la porta a una nuova intimità.
Il dito che indica dentro
L’odio parla sempre dell’altro, ma in realtà tace di noi stessi. Ci distrae, ci divide, ci illude di avere un colpevole esterno. Ma la vera sfida è usare quel dito puntato per rivolgerlo dentro, verso la parte di noi che ha paura, che si sente fragile, che ha bisogno di cura.
E forse, in quel gesto semplice ma rivoluzionario, possiamo trovare la possibilità di ricostruire non solo le nostre relazioni, ma anche il tessuto sociale in cui viviamo.
Se senti che è il momento di iniziare a guardarti dentro e non solo fuori, puoi contattarmi qui. Insieme possiamo trasformare l’odio in comprensione, e la povertà emotiva in ricchezza di relazione.