Narcisismo e paura di perdere il controllo”: riconoscere la dinamica, proteggere i confini, tornare a scegliere te
Beatrice LencioniCondividi
A volte il narcisismo entra nella nostra vita in punta di piedi, con fari accesi e promesse enormi. All’inizio sembra una cascata di attenzioni: messaggi costanti, frasi da film, un’intimità accelerata che abbaglia. Poi, lentamente, qualcosa cambia. Ti ritrovi a giustificarti per ogni dettaglio, il “love bombing” diventa richiesta di disponibilità assoluta, e la tua autonomia inizia a sembrare un affronto. Se provi a rallentare, ecco che arrivano la svalutazione, il “silent treatment”, la triangolazione, persino quel gaslighting sottile che ti fa dubitare della tua memoria. Ti chiedi: sono io esagerato/a? O è la relazione ad essere diventata una relazione tossica?
Scrivo da counselor relazionale. Il mio lavoro non è etichettare nessuno, ma aiutare chi vive queste dinamiche a ritrovare centratura, confini personali e voce. In questa guida – narrativa ma concreta – intreccio parole chiave che tanti e tante cercano quando digitano “narcisista”, “manipolazione emotiva”, “gaslighting”, “come uscire da una relazione tossica”, “contatto zero” e “gray rock”. Non per fare una lista tecnica, ma per cucire una mappa che ti riporti a casa.
Quando il bisogno di controllo si traveste da amore
Il cuore del narcisismo non è la forza: è la paura di perdere il controllo. Perdere il controllo significa sentire vulnerabilità, caos, rischio di abbandono; significa percepire che l’immagine di superiorità si incrina. E allora ecco l’urgenza di rimetterti “al tuo posto”, di ricondurti nel recinto delle aspettative. Qui fanno capolino parole che leggiamo spesso online: “rabbia narcisistica” quando dici no, “ferita narcisistica” quando l’ego viene toccato, “proiezione” quando ti vengono attribuite colpe che non sono tue. Sullo sfondo, un bisogno di approvazione che si nutre della tua attenzione. Se smetti di nutrire, arrivano scatti d’ira, svalutazioni o, all’opposto, promesse e lacrime. È la danza del potere: avvicino, allontano, confondo. E tu, nel mezzo, cominci a perdere contatto con te.
Non è colpa tua se ti sei agganciato/a a questa altalena. Il legame traumatico nasce proprio dall’alternanza di premio e ritiro. Un giorno sei l’unica persona al mondo, il giorno dopo ti senti invisibile. Il cervello, abituato a rincorrere la gratificazione intermittente, resta in attesa della prossima dose di approvazione. E intanto tu scivoli, centimetro dopo centimetro, in una dipendenza affettiva che ha profumo di amore ma sapore di ansia.
Dall’idealizzazione allo “scarto”: il ciclo che incatena
Il ciclo, raccontato in mille testimonianze, ha una struttura ricorrente. Idealizzazione: sguardi come stelle, messaggi costanti, dichiarazioni premature. Stabilizzazione apparente: una quotidianità in cui però il controllo cresce sottotraccia. Svalutazione: battute pungenti, gelosie immotivate, richieste di spiegazioni. “Scarto” (discard): allontanamento, gelo, triangolazione con terzi per riattivare in te paura e competizione. A volte, dopo lo scarto, c’è il “ritorno” (hoovering): promesse, frasi dolci, “non so vivere senza di te”. Non succede sempre così, ma abbastanza spesso da diventare un copione riconoscibile.
Qui affiorano altre parole chiave che le persone cercano: red flags, confini, abuso psicologico, responsabilità emotiva, autostima. Le “bandierine rosse” non sono teoria: sono quei momenti in cui ti rendi conto che per evitare conflitti hai iniziato a mentire su cose piccole, a cancellare messaggi innocui, a nascondere parti di te. Quando smetti di invitare un’amica perché “tanto poi si arrabbia”, quello è un confine che stai spostando contro te stesso/a. E il corpo lo sa: lo stomaco si chiude, il respiro si fa corto, dormi peggio. La tua bussola interiore – quella che chiamiamo autoregolazione – sta chiedendo aiuto.
Gaslighting, triangolazione e “silent treatment”: tre forme comuni di manipolazione emotiva
Il gaslighting è quell’insieme di micro–manovre comunicative che ti fanno dubitare della tua percezione. “Non è successo così”, “te lo stai inventando”, “sei troppo sensibile”. Ripetute nel tempo, queste frasi erodono la fiducia nelle tue sensazioni. La triangolazione porta in scena un terzo (un ex, un/la collega, persino un familiare) per farti sentire inadeguato/a o in competizione. Il silent treatment è il gelo punitivo: nessuna risposta, nessuna spiegazione, solo silenzio che pesa. Tutte e tre le pratiche hanno un obiettivo: ristabilire il potere, riprendere il controllo, riportarti nella posizione di chi chiede, giustifica, rincorre.
Se ti sei riconosciuto/a anche solo in parte, ti invito a fare un respiro. Non sei ingenuo/a né “masochista”. Sei umano/a, e come tutti cerchi amore, contatto, coerenza. Vedere la dinamica è già un passaggio di libertà.
Confini personali: non muri, ma sentieri
Qui entra in gioco la parola chiave più importante di tutte: confini personali. Un confine sano non è un muro, è un sentiero ben segnato. Dice “qui sto bene”, “qui no”. Non ha bisogno di urla, ha bisogno di coerenza. “Questa battuta sul mio corpo non mi fa bene, interrompo la conversazione e ne riparliamo in un altro momento.” “Stasera non posso, ci sentiamo domattina.” “Non prendo impegni dettati dalla fretta, ho bisogno di pensarci.” Confini semplici, quotidiani, che il corpo può sostenere.
Per molte persone è utile una tecnica di protezione temporanea chiamata gray rock (pietra grigia): risposte brevi, neutre, poco emotive, per non alimentare la manipolazione emotiva. Non è la soluzione a tutto, non va usata dove c’è rischio di aggressività, e non dovrebbe diventare il tuo stile di vita. Ma quando non puoi tagliare i ponti subito – lavoro, famiglia, co-genitorialità – può aiutare a disinnescare gli inneschi. A volte, insieme al gray rock, serve anche no contact (contatto zero): nessun messaggio, nessuna telefonata, nessun controllo social. Il contatto zero non è una vendetta; è una cura. È concederti uno spazio protetto per riassestare la tua autoregolazione emotiva, ricostruire autostima, uscire dal legame traumatico senza ricadere nella nostalgia del picco.
“Perché non riesco a lasciarlo/la?”: il legame traumatico spiegato semplice
La dipendenza affettiva non è debolezza morale. È il risultato di circuiti molto umani: rinforzo intermittente, paura della perdita, memorie di attaccamento che ci spingono a inseguire ciò che un tempo è stato raro. Se l’amore nella tua storia è arrivato a strappi – intensissimo e poi sfuggente – è probabile che oggi tu faccia fatica a fidarti della stabilità. L’attaccamento ansioso spinge a cercare conferme continue; l’attaccamento evitante fa temere l’intimità e preferire il controllo. Non sono etichette mediche, sono lenti per capirci. E si possono sciogliere. Il ponte si chiama presenza: presenza nel corpo (respiro, postura, ritmo), presenza nelle scelte (piccoli sì e piccoli no sostenibili), presenza nelle relazioni affidabili che non ti costringono a recitare.
Storytelling: il giorno in cui ho smesso di correre
Ti racconto una scena che ho visto accadere molte volte. Lei (o lui) entra con il fiato corto e il telefono in mano. “Se non rispondo entro dieci minuti, è un inferno. Ma se rispondo troppo, sono appiccicosa. Non so più come muovermi.” Lavoriamo su un esperimento minuscolo: quaranta minuti al giorno senza telefono, a orari variabili. Una passeggiata lenta, una doccia lunga, una pagina di diario. Il primo giorno resiste dodici minuti. Il terzo piange. Il quinto scopre che l’ansia sale e poi, se respira, scende. L’altra persona se ne accorge: prima lamenta, poi punge, infine gela. Usiamo frasi-ponte: “Ne parliamo alle 20”, “Questa conversazione non mi fa bene”, “Chiudo qui se il tono non cambia”. Non è eroismo, è igiene emotiva.
Dopo due settimane, una notte da un’amica. Non come minaccia, ma come prova di sicurezza. “Ho dormito davvero”, mi scrive al mattino. Non c’è un lieto fine da film, c’è un passo dopo l’altro. A volte la relazione cambia. Altre volte finisce. In entrambi i casi la persona recupera la sensazione di avere scelta. E questa, più del “vissero felici e contenti”, è la rivoluzione.
Segnali pratici che indicano che la relazione è diventata tossica
Senza fare elenchi, prova a riconoscere questi indizi quando si affacciano insieme: inizi a mentire per quieto vivere; smetti di parlare con chi ti vuole bene per evitare conflitti; controlli di continuo messaggi e social alla ricerca di minimi segni di approvazione; ti dai la colpa di cose che non controlli; il tuo corpo vive in allarme. Se, leggendo, ti sei detto/a “questo succede a me”, non sei solo/a. Riconoscere i segnali è il primo passo per uscire dal labirinto.
Come si esce davvero: dal “capire” al “fare”
Capire la manipolazione emotiva è fondamentale, ma da solo non basta. Serve un ponte verso l’azione. Il ponte, nella pratica, è fatto di tre pilastri che riassumono molte delle parole chiave di chi cerca aiuto sul narcisismo.
Il primo pilastro è autocura. Sembra banale, ma senza sonno, cibo regolare, movimento, aria, è quasi impossibile sostenere confini. Il corpo è la tua prima casa: se la trascuri, qualunque “no” suona falso anche a te.
Il secondo pilastro sono i confini. Non quelli scritti su un post-it, ma quelli vissuti. Un “no” sostenuto da un’azione concreta (chiudere la chiamata, uscire da una stanza, rimandare una discussione) vale più di dieci “no” urlati e poi ritrattati.
Il terzo pilastro è la rete. Nessuno interrompe un legame traumatico in solitudine. Ci vogliono sguardi buoni, orecchie allenate ad ascoltare senza giudicare, luoghi in cui ricordarti che non devi meritarti l’aria che respiri. Qui, se senti che è il momento, puoi dare un’occhiata a come lavoro su beatricelencioni.it, scrivermi dai contatti o prenotare un colloquio gratuito. È una conversazione informale per capire insieme cosa ti serve davvero.
“No contact” o “low contact”: quale strada?
Non tutte le storie consentono il contatto zero immediato. Con figli, lavoro o legami familiari stretti, spesso si sceglie un low contact: ridurre al minimo gli scambi, tenerli su binari tecnici, evitare argomenti emotivi, usare canali scritti quando possibile. Il gray rock qui torna utile perché svuota le provocazioni del loro carburante. Se, invece, puoi davvero scegliere il no contact, preparalo come si prepara un viaggio: ripulisci la rubrica, blocca contatti, organizza appoggi, prevedi la “tempesta di nostalgia” e metti in tasca frasi da dirti quando l’onda torna (“non sto rinunciando all’amore, sto rinunciando al dolore”).
“E se cambia?”: la domanda che ferma il tempo
È giusto darselo, il tempo di capire. Ma è altrettanto giusto chiedersi: il cambiamento che vedo è costante o è l’ennesimo picco che precede la prossima svalutazione? Le scuse sono azioni o parole? La responsabilità emotiva è reciproca o tocca sempre a me? Il narcisismo, in rete, viene descritto come immutabile; nella realtà io ho visto persone che, quando davvero scelgono di lavorare su di sé, diventano più oneste e rispettose. Però serve volontà vera, non pacchetti di frasi imparate. E, soprattutto, non sta a te fare da terapeuta della relazione: sta a te proteggerti, definire cosa è per te rispetto, verificare nel tempo se c’è coerenza. Se non c’è, la tua dignità non è negoziabile.
Narrazione interiore: ricostruire l’autostima senza “armature”
Un effetto collaterale delle relazioni tossiche è la bassa autostima. Dopo mesi (o anni) a rispecchiarti in occhi che ti svalutano, inizi a vedere te stesso/a con quella lente. Per questo, quando parliamo di “guarire dalla dipendenza affettiva”, non ci riferiamo a una cura miracolosa, ma a un percorso di ricostruzione. Si comincia dal corpo – di nuovo – e dalla narrazione interiore. Un giorno alla volta, sostituisci “sono sbagliato/a” con “sto imparando”, “devo meritare amore” con “merito rispetto”. Le parole non sono zucchero a velo: sono guide neurali. Se le ripeti con gesti coerenti, si trasformano in abitudini. E le abitudini cambiano la vita.
Torino, online o altrove: l’aiuto giusto per te
Se sei a Torino e vuoi uno spazio di counseling relazionale olistico – in presenza o online – io ci sono. L’obiettivo non è “aggiustarti”, ma affiancarti mentre rimetti al centro ciò che conta: rispetto di te, autonomia, relazioni sane. Sul sito beatricelencioni.it trovi la mia storia e il mio modo di lavorare; se preferisci scrivermi prima, qui ci sono i contatti. Se vuoi un primo assaggio senza impegno, puoi prenotare un colloquio gratuito: ci conosciamo, capiamo se c’è sintonia, tracciamo una rotta su misura.
Domande utili da portare con te (senza farne un elenco)
Prova a tenere nella tasca della giacca quattro domande semplici. Quello che sto accettando oggi sarebbe accettabile per la me o il me di dieci anni fa? Se dico “no”, cosa succede davvero (al di là delle paure)? Se il rispetto è una strada, quali sono due sassi che posso togliere subito? Se domani un amico/a mi raccontasse questa identica storia, cosa gli/le consiglierei?
Le risposte non arrivano in un giorno, ma arrivano. E quando arrivano aprono finestre: entra aria, esci dal labirinto, torni a scegliere.
Conclusione: la libertà non urla, resta
Il narcisismo ti convince che senza quell’attenzione non esisti. È una bugia elegante, ripetuta così spesso da sembrare verità. La tua esistenza non dipende da nessun “pubblico”. Dipende da come ti guardi quando spegni il telefono. Dipende dalla cura che ti dai nei giorni grigi. Dipende dalla qualità dei confini con cui onori te stesso/a. La paura di perdere il controllo non è il tuo problema da risolvere. Il tuo compito è riconoscerla quando si presenta e scegliere strade che ti restituiscano dignità. È meno spettacolare di un film, ma è più vero. E la verità, nelle relazioni, è la cosa più rivoluzionaria che abbiamo.