Mamme instancabili | Beatrice Lencioni Counselor

Mamme instancabili (e invisibili): quando fare tutto diventa troppo

Beatrice Lencioni

“Dire 'no' non è rifiuto, è cura di sé: meno perfezione, più verità.”

Quella stanchezza che nessuno vede

C'è un momento preciso in cui ti accorgi che qualcosa non va.
Non è quando prepari l’ennesimo pranzo da sola, o quando stiri di notte perché di giorno non c’è tempo. È quando ti sorprendi a pensare: “Possibile che nessuno si accorga che non ce la faccio più?”.

E lì si apre un vuoto. Uno strappo silenzioso tra quello che dai e quello che ti ritorna.

In tanti anni di ascolto come counselor relazionale, ho incontrato tantissime persone che si sono ritrovate esattamente in questo punto: madri, compagne, figlie, ma anche uomini con un senso di dovere così radicato da non riuscire più a distinguere la responsabilità dall’autosacrificio.

E allora oggi voglio raccontarti questa storia. La tua, forse. O quella di qualcuno che ami.

L’ideale della madre perfetta: una trappola silenziosa

Nel nostro immaginario, la mamma ideale è quella che fa tutto. Non chiede, non si lamenta, non si ferma. Si prende cura di tutti, sempre.

Solo che questa immagine, così perfetta, così irreale, è anche una delle più tossiche.
Perché impone un modello che non contempla il limite, la fatica, l’errore. E soprattutto non contempla il diritto alla reciprocità.

Fare tutto da soli, senza delegare, spesso nasce da un misto di abitudine, senso del dovere e… paura. Sì, paura di essere giudicati, di sembrare incapaci, di non essere “abbastanza bravi”.

Ma chi lo ha deciso che il valore di una madre – o di qualsiasi persona – si misura in base a quanto si sacrifica?

Il paradosso del “nessuno mi aiuta”

Una delle frasi che ho sentito più spesso in colloquio è:

“Faccio tutto da sola… e poi mi arrabbio perché nessuno mi dà una mano.”

Ed è qui che si apre il paradosso: per anni ci si è allenati a non chiedere, a controllare tutto, a fare prima da sé – perché è più veloce, perché almeno si fa come si deve, perché “non voglio disturbare”.

E poi si spera che qualcuno si accorga del nostro bisogno. Che legga nel non detto. Che ci veda.
Solo che spesso, il non detto resta… invisibile.

Chiedere aiuto non è un segno di debolezza. È un atto di coraggio. È un modo per dire: Io valgo abbastanza da non dovermi consumare per essere amata.

Senso di colpa: quel carico che non ci appartiene

C’è una parola che ritorna sempre quando si parla di questi temi: colpa.

Colpa per aver detto no.
Colpa per non aver fatto abbastanza.
Colpa per aver scelto un momento per sé.

Il senso di colpa è un’emozione sottile, che si infiltra nei gesti più piccoli. È quella vocina che sussurra: “Se non cucini, cosa penseranno?”, “Se lasci i piatti nel lavandino, sei una madre disordinata”, “Se vai in palestra, sei egoista”.

Ma la verità è un’altra: una persona che si prende cura di sé, è più presente per gli altri.
Non si tratta di essere perfetti. Si tratta di essere sufficientemente presenti, e umanamente veri.

Responsabilità estrema: quando l’amore diventa un dovere

Dietro l’iper-responsabilità si nasconde spesso una ferita più profonda: quella dell’essere cresciuti sentendosi responsabili per il benessere degli altri.

Molti di noi sono stati bambini adultizzati troppo presto. Bambini che hanno imparato a “dare una mano”, a essere bravi, a non dare fastidio. E quei bambini, una volta cresciuti, diventano adulti che fanno di tutto per non deludere nessuno.

La responsabilità, in sé, è una cosa bella. Ma quando diventa totale, quando assorbe tutto lo spazio, cancella la possibilità di esistere come persone, e non solo come ruoli.

Nel mio lavoro su beatricelencioni.it, in tanti percorsi individuali (come quello gratuito che trovi qui), accompagno chi si sente imprigionato da questa idea di dover “reggere tutto” da solo.

Imparare a dire no: un atto d’amore

Dire “no” è un atto che spaventa. Perché ci hanno insegnato che dire no è rifiutare. È deludere.
In realtà, dire no a qualcosa è dire sì a se stessi.

Significa riconoscere i propri limiti, e onorarli.
Significa smettere di riempire ogni vuoto, ogni bisogno, ogni aspettativa che non ci appartiene.

E non succede niente se un giorno il pranzo non è pronto alle 13.
Non crolla il mondo se una sera si mangia qualcosa di semplice.
Non muore nessuno se prendi un’ora per te.

È nella libertà di dire no che nasce la vera relazione. Perché solo lì si può dire un sì che sia autentico.

 “Ma se non lo faccio io, chi lo fa?”

Domanda legittima. E dolorosa.

Perché spesso intorno a chi fa tutto si crea un sistema che si regge proprio su questo: il dare ininterrotto.
Gli altri si abituano. Non per cattiveria. Ma perché funziona così: se c’è chi si prende cura di tutto, chi glielo toglie?

Ma è proprio per questo che è importante fermarsi.
Comunicare. Rinegoziare. Coinvolgere. Anche se inizialmente costa fatica. Anche se si incontra resistenza.

La buona notizia? Si può cambiare.
E non serve farlo tutto in un giorno.

 “Non mi aiuta nessuno”: davvero?

A volte, il senso di solitudine nasce anche da una difficoltà a riconoscere il contributo degli altri.
Magari chi ci è vicino ci prova, ma non nel modo in cui vorremmo. E questo può generare frustrazione.

Parlare chiaramente, specificare ciò che si desidera, accettare che non tutti fanno le cose come noi: sono tutti passi importanti per uscire da questo schema.

E poi c’è un altro nodo: l’identità.
Molte madri (ma non solo) legano la propria identità alla propria utilità. Se non faccio, se non servo, chi sono?

È da lì che parte un lavoro profondo. Di riconoscimento. Di riscrittura di sé.
Percorsi che nel counseling, anche online, si possono affrontare con delicatezza e rispetto. Se vuoi, possiamo iniziare da qui.

Il mito dell’eroina

C’è qualcosa di “epico” nel fare tutto da soli.
Il problema è che l’eroismo quotidiano, a lungo andare, si paga con la pelle.

Perché nessuna madre dovrebbe arrivare allo stremo per dimostrare il suo valore.
Nessun padre dovrebbe annullarsi per essere considerato all’altezza.
Nessuna persona dovrebbe sentirsi in colpa per aver bisogno di aiuto.

La cura ha senso solo se è reciproca.
E la forza non è nel fare tutto. È nel saper fermarsi. Ascoltarsi. Riorganizzare. E chiedere, quando serve.

Essere genitori, non martiri

Essere genitori – o partner, o figli presenti – non significa farsi da parte.
Significa esserci in modo vero. E un genitore vero è anche un modello di cura di sé.

Quando una madre si prende tempo per respirare, leggere, camminare, dormire… insegna ai propri figli che il benessere non è un lusso, ma un diritto.
Quando un padre si concede di fallire, di dire “non ce la faccio”, trasmette un messaggio rivoluzionario: che anche gli adulti hanno bisogno.

Educare con l’esempio significa anche questo.

Se ti riconosci in queste parole

Se ti sei sentito stanco, invisibile, esausto. Se hai detto troppe volte “va tutto bene” mentre dentro urlavi. Se ti sei sentito in colpa per un bisogno legittimo: allora sappi che non sei solo, né sola.

C’è uno spazio in cui puoi fermarti, parlare, ascoltarti.
Uno spazio in cui non devi giustificare la tua fatica, né competere per essere ascoltatə.
Puoi prenotare un primo colloquio gratuito qui, senza impegno. Oppure leggere altri articoli sul blog beatricelencioni.it, dove potresti ritrovare altre storie simili alla tua.

Meno perfezione, più verità

Imparare a dire no non è un gesto contro qualcuno.
È un modo per dirsi: “Mi vedo. Mi rispetto. Mi scelgo.”

Smettere di fare tutto non è abbandonare. È permettere agli altri di esserci.
E soprattutto, è permettere a se stessi di vivere con meno peso, meno colpa, e più libertà.

Non sei sbagliatə se non riesci a far tutto.
Sei solo umanə. E va benissimo così.

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