Oltre il mito del pensiero positivo | Beatrice Lencioni Counselor

La trappola del “pensa positivo”: quando il pensiero positivo diventa un peso

Beatrice Lencioni

Quante volte ti sei sentito dire “dai, pensa positivo” mentre dentro ti sentivi travolto dall’ansia o bloccato in un loop mentale? All’inizio sembra un consiglio gentile, quasi un invito a cambiare canale e guardare la vita con occhi diversi. Ma poi ti accorgi che non funziona. Ti ritrovi lì, con la testa piena di pensieri che non mollano la presa, e insieme al disagio iniziale arriva anche il senso di colpa: “Se non riesco a pensare positivo, allora sono io il problema”.

Ecco la trappola. Il pensiero positivo, se imposto come obbligo, rischia di diventare una gabbia più che una risorsa. In questo articolo voglio accompagnarti dentro questo tema con uno sguardo autentico, umano e inclusivo. Ti mostrerò perché il “pensa positivo” non solo non è la soluzione per la mente ansiosa, ma può addirittura peggiorare le cose, e soprattutto quali alternative sane e realistiche puoi abbracciare per stare meglio.


La radice del problema: quando il pensiero positivo diventa un dogma

Il pensiero positivo nasce come movimento culturale e spirituale, soprattutto negli Stati Uniti del XIX secolo. All’epoca, il messaggio era semplice: se stai male è colpa tua che non preghi abbastanza. Nel tempo, questo approccio si è trasformato e adattato al linguaggio del capitalismo moderno: se sei povero o non hai successo, significa che non attrai abbastanza energia positiva, non visualizzi correttamente i tuoi obiettivi.

Il risultato è che i problemi reali — sociali, economici, relazionali — vengono trasformati in colpe individuali. Se non riesci a sorridere alla vita, il problema diventi tu. Questa mentalità, apparentemente motivante, crea in realtà una pressione enorme e poco realistica. Non a caso oggi il “positive thinking” è un business miliardario, fatto di libri, corsi e workshop che promettono la felicità come se fosse un prodotto da scaffale.

Ma dietro a questo meccanismo c’è un rischio enorme: quello di invalidare le emozioni autentiche, in particolare quelle che fanno più paura come la tristezza, la rabbia o l’ansia.


La mente ansiosa e il paradosso del “non pensare”

Un esperimento molto famoso condotto da Daniel Wegner, psicologo di Harvard, lo dimostra chiaramente. Chiedeva ai partecipanti: “Non pensare a un orso polare bianco”. Il risultato? Era praticamente impossibile non pensarci. Più cercavano di scacciarlo, più l’immagine dell’orso diventava insistente. Questo fenomeno prende il nome di “effetto rimbalzo ironico”: sopprimere un pensiero lo rende ancora più dominante.

Se vivi con una mente ansiosa sai benissimo cosa significa. Ti sforzi di non pensare a quel problema, ti imponi di guardare solo il lato positivo, ma l’effetto è l’opposto. L’ansia cresce, la mente diventa ancora più caotica e l’idea di “essere positivo” diventa un’ulteriore fonte di frustrazione.


Perché il “pensa positivo” può peggiorare la motivazione

Oltre al paradosso del pensiero, c’è un altro meccanismo che rende il “pensa positivo” controproducente. La ricercatrice Gabriele Oettingen ha dimostrato che visualizzare solo scenari positivi può ridurre la motivazione e peggiorare le performance. Il cervello interpreta la visualizzazione come se l’obiettivo fosse già raggiunto e quindi investe meno energia nelle azioni concrete.

In pratica: se mi convinco che tutto andrà bene solo perché lo immagino, rischio di non muovere un passo nella realtà. E questo, per una mente ansiosa, diventa ancora più dannoso. Quando non riesce a essere ottimista, l’ansioso si auto-colpevolizza: “Non sono capace nemmeno di pensare positivo, quindi sono davvero un fallimento”.


Pensare positivo o negare la realtà?

C’è una sottile differenza tra scegliere di coltivare uno sguardo fiducioso e negare le proprie emozioni. Il problema nasce quando il pensiero positivo viene trasformato in un obbligo. Se diventa una voce che ti dice “smettila di preoccuparti”, “non dovresti sentirti così”, allora non stiamo parlando di crescita personale ma di repressione emotiva.

Le emozioni non svaniscono perché le ignoriamo. È come se qualcuno ti dicesse “non avere paura” mentre sei in bilico su un ponte sospeso. La paura non se ne va: anzi, diventa più intensa, perché ti senti anche sbagliato a provarla.

Il vero antidoto alla trappola del “pensa positivo” non è arrendersi al pensiero catastrofico, ma imparare ad accogliere ciò che c’è.


Accoglienza e consapevolezza: un’alternativa autentica

Accogliere significa concedersi il permesso di sentire, anche quando ciò che proviamo non ci piace. Vuol dire dirsi: “Ok, in questo momento sto provando ansia, e va bene così”. Non significa arrendersi o crogiolarsi nel dolore, ma smettere di combattere con se stessi.

La mindfulness, la meditazione, il focusing e tante altre pratiche di consapevolezza ci insegnano proprio questo: osservare i pensieri senza giudicarli, lasciarli scorrere come nuvole nel cielo. In questo modo, paradossalmente, diventano meno potenti.

Questa è anche la base del lavoro che propongo nei percorsi di counseling: non lottare contro ciò che senti, ma imparare a trasformarlo in una risorsa di conoscenza di te stesso. Se vuoi approfondire come funziona questo approccio, puoi dare un’occhiata al sito Beatrice Lencioni Counselor Relazionale, dove troverai diverse risorse e percorsi spiegati in modo semplice e accessibile.


Quando il “pensa positivo” diventa un’arma sociale

Non possiamo ignorare che dietro il dogma del pensiero positivo ci sia anche un forte risvolto sociale. Quante volte hai sentito frasi come:
“Se non trovi lavoro, visualizza il successo.”
“Se sei depresso, sorridi e pensa positivo.”

Dietro queste frasi si nasconde un pericolo: trasformare problemi reali, come la precarietà o la mancanza di sostegno, in responsabilità esclusivamente personali. È una forma di controllo sociale che toglie attenzione alle cause sistemiche. Non trovi lavoro? È colpa tua perché non ci credi abbastanza. Non stai bene? È perché non attrai energia positiva.

Questa narrazione non solo è ingiusta, ma impedisce di costruire soluzioni concrete e collettive.


Racconti di vita: quando “pensa positivo” non basta

Mi viene in mente una donna che ho incontrato qualche anno fa. Viveva un momento di forte ansia legato a un cambiamento lavorativo. Tutti intorno a lei le ripetevano: “Vedrai, pensa positivo, andrà tutto bene”. Lei annuiva, ma dentro si sentiva sola e incapace. Ogni volta che non riusciva a scacciare i pensieri ansiosi, si colpevolizzava ancora di più.

Solo quando ha trovato uno spazio sicuro in cui poter dire: “Ho paura, sono in ansia, non riesco a immaginare il meglio” senza sentirsi giudicata, ha iniziato a stare meglio. Non perché fosse improvvisamente diventata ottimista, ma perché aveva finalmente smesso di combattere contro se stessa.


Uscire dalla gabbia del pensiero positivo: come fare davvero

Allora cosa possiamo fare se il pensiero positivo non è la risposta? La strada non è fingere che tutto vada bene, ma costruire strumenti concreti di ascolto e sostegno.

Significa coltivare la gentilezza verso se stessi, anche quando ci sentiamo fragili. Significa concedersi la libertà di dire: “Non sto bene, ma non per questo valgo meno”. Significa affidarsi a percorsi di crescita che aiutano a trasformare le emozioni, non a soffocarle.

Se senti il bisogno di uno spazio per affrontare l’ansia o per imparare a guardare la vita con occhi più autentici, puoi sempre contattarmi attraverso la sezione contatti. E se desideri fare un primo passo senza impegno, puoi prenotare un colloquio gratuito online: sarà un momento per parlare liberamente di ciò che vivi e capire se un percorso insieme può esserti utile.


Oltre il mito del pensiero positivo

Il pensiero positivo non è sempre sbagliato. A volte può incoraggiare, alleggerire, dare speranza. Ma se diventa un obbligo, una voce che ti dice che sei sbagliato perché non riesci a sorridere, allora non è più uno strumento, ma una catena.

La mente ansiosa non ha bisogno di frasi fatte. Ha bisogno di ascolto, accoglienza, tempo e pazienza. Ha bisogno di spazi in cui le emozioni siano legittime e non colpevolizzate.

Per questo, la prossima volta che sentirai la tentazione di dirti o dire a qualcuno “pensa positivo”, fermati un attimo. Chiediti invece: “Di cosa hai davvero bisogno in questo momento?”. La risposta potrebbe sorprenderti: forse non è un pensiero positivo, ma un abbraccio autentico, un respiro profondo, o la libertà di dire semplicemente: “Così come sono, vado già bene”.

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