Ricerca della felicità | Counselor Torino

La felicità è semplice. Perché la rendiamo così complicata?

Beatrice Lencioni

C'è una domanda che a volte emerge nei momenti di silenzio, semplice e disarmante: “Che male ci ha fatto la felicità?”. Nasce osservando come, crescendo, abbiamo sviluppato un talento straordinario nel complicare le cose semplici. Un tempo la gioia era un istinto, un pomeriggio vuoto da riempire con risate e ginocchia sbucciate. Oggi, la ricerca della felicità assomiglia più a un secondo lavoro: richiede pianificazione, strategia e un'infinita lista di obiettivi da raggiungere.

Questa domanda non è un’accusa, ma uno specchio. Riflette la nostalgia che proviamo non tanto per il passato, quanto per la versione di noi stessi che sapeva essere felice con poco, che non aveva bisogno di un permesso per giocare, per sognare, per essere semplicemente se stessa. Abbiamo barattato la spontaneità con il controllo, la presenza con la performance, e ora ci ritroviamo a chiederci perché sentiamo questo vuoto, questa fatica costante.

La verità è che la felicità non ci ha fatto nessun male. Siamo noi che, per paura di soffrire, abbiamo iniziato a costruirle attorno una fortezza, dimenticando che le fortezze non solo proteggono, ma isolano. E forse, è arrivato il momento di iniziare a smontarla, un mattone alla volta.

 

La nostalgia di una gioia che non doveva essere meritata

 

Ricordi quella sensazione? La leggerezza di un momento senza scopo, senza agenda. La felicità non era un traguardo da tagliare, ma l'aria stessa che respiravi mentre correvi in un prato o condividevi un segreto con un amico. Non dovevi meritarla, non dovevi dimostrare di esserne all'altezza. Accadeva e basta. Era una conseguenza naturale del vivere, non un progetto da gestire.

Col tempo, abbiamo imparato una lezione diversa. Abbiamo imparato che ogni cosa ha un prezzo, che il tempo va ottimizzato e che i risultati sono l'unica cosa che conta. Così, abbiamo applicato questa logica anche alla nostra vita interiore. La ricerca della felicità è diventata una performance. La cerchiamo nel traguardo professionale successivo, nella relazione perfetta, nel corpo ideale, nella vacanza da cartolina. La inseguiamo con la stessa ansia con cui affrontiamo una scadenza di lavoro.

Eppure, dentro di noi, una parte non ha mai smesso di ricordare. È una voce silenziosa che, nei rari momenti di quiete, ci sussurra che stiamo cercando nel posto sbagliato. È la nostalgia di quella gioia gratuita, di quella pace che non dipendeva da fattori esterni, ma da uno stato interiore di apertura e di presenza. È il desiderio di ritrovare la strada verso quel luogo dentro di noi dove essere felici è, ancora, una cosa semplice.

 

La prigione delle regole non scritte: perché ci sabotiamo?

 

Quel luogo non è svanito. Lo abbiamo recintato noi stessi, con una serie di regole non scritte che governano silenziosamente la nostra esistenza. Sono i nostri divieti interiori, i paletti che piantiamo per paura di sbagliare, di essere feriti, di fallire. Sono convinzioni così radicate che non le mettiamo nemmeno più in discussione.

"Mostrarsi vulnerabili è pericoloso." "Devo avere sempre tutto sotto controllo." "Se chiedo aiuto, penseranno che sono debole." "Il fallimento è inaccettabile." "Devo piacere a tutti per sentirmi accettato." "Prima il dovere, poi (forse) il piacere."

Ognuna di queste regole è un’inferriata nella prigione che costruiamo attorno al nostro cuore. Pensiamo che ci protegga dal mondo esterno, ma in realtà ci impedisce di partecipare pienamente alla vita. Ci tiene al sicuro, ma la sicurezza che offre è quella della stasi, del non-rischio, del non-vivere. Ci protegge dal dolore di un rifiuto, ma ci nega anche la gioia di una connessione autentica. Ci ripara dalla delusione di un fallimento, ma ci preclude l'entusiasmo di provarci davvero.

Da dentro questa prigione, la vita ci scorre accanto. Osserviamo gli altri e ci sembrano più liberi, più felici, più coraggiosi. Non capiamo che la porta della nostra cella non è chiusa a chiave. Siamo noi che, per abitudine e per paura, ci rifiutiamo di aprirla e di fare il primo passo fuori.

 

La paura di cadere e il bisogno di controllare tutto

 

Perché preferiamo la sicurezza della nostra prigione alla libertà del mondo? La radice è quasi sempre la stessa: la paura. La paura di soffrire, di essere giudicati, di perdere il controllo. Da bambini, cadere faceva parte dell'imparare a camminare e a correre. Da adulti, la paura di una caduta emotiva ci paralizza.

Il bisogno di controllo diventa la nostra strategia di sopravvivenza. Se riesco a prevedere ogni scenario, a pianificare ogni dettaglio, a gestire ogni emozione (mia e degli altri), allora forse potrò evitare il dolore. Nelle relazioni, questo si traduce in un costante stato di allerta: analizziamo ogni parola, cerchiamo conferme, evitiamo i conflitti, indossiamo maschere per essere amabili, efficienti, perfetti.

Abbiamo smesso di "giocare" con la vita, perché il gioco è intrinsecamente imprevedibile. Non ha un esito garantito. Ma la nostra società ci ha insegnato a essere ossessionati dal risultato. E così, anche la felicità è diventata un KPI (Key Performance Indicator) della nostra esistenza, qualcosa da misurare e dimostrare. Il paradosso è che più ci sforziamo di controllare la vita per garantirci la felicità, più generiamo ansia e ci allontaniamo dalla gioia spontanea, che per sua natura non può essere controllata.

La vulnerabilità ci appare come il nemico numero uno, il rischio supremo. Invece, è l'unica vera via di fuga. Lasciare andare il controllo non è un atto di resa, ma un atto di coraggio e di fiducia. La fiducia nella nostra capacità di affrontare ciò che la vita ci presenta, bello o brutto che sia.

 

La vulnerabilità come superpotere: il coraggio di essere autentici

 

In un mondo che ci vuole sempre performanti e invincibili, abbracciare la nostra vulnerabilità è l'atto più coraggioso che possiamo compiere. Non significa essere deboli, ma essere reali. Significa avere il coraggio di dire "ho paura", "ho bisogno di aiuto", "ho sbagliato". Significa smettere di nascondersi dietro un'armatura e permettere a noi stessi e agli altri di vederci per quello che siamo.

È proprio in quello spazio di autenticità che avviene la magia della connessione umana. Finché portiamo l'armatura, possiamo al massimo scontrarci. Solo quando la deponiamo, possiamo abbracciare ed essere abbracciati. È lì che scopriamo che le nostre paure e le nostre fragilità non sono uniche, ma universali. È lì che l'amore per se stessi inizia a mettere radici, perché smettiamo di giudicarci per le nostre imperfezioni e iniziamo a vederle come parte della nostra umanità.

Parte di questo processo è l'accettazione del dolore. Per troppo tempo lo abbiamo trattato come un nemico da sconfiggere o da ignorare. Ma il dolore non ascoltato non scompare, si deposita dentro di noi e diventa un peso costante. Accettarlo non vuol dire rassegnarsi, ma ascoltare ciò che ha da dirci sulla nostra vita, sulle nostre ferite, sui nostri bisogni. È il primo, indispensabile passo verso la guarigione interiore.

Questo è un cammino che richiede gentilezza. Lo stesso tipo di gentilezza che useremmo con un bambino che impara a camminare. Nel mio lavoro come counselor, come spiego su beatricelencioni.it, il mio ruolo è proprio quello di creare uno spazio sicuro dove questa gentilezza possa fiorire, dove la vulnerabilità sia accolta come una forza e non come una debolezza.

 

La felicità non è una meta, ma un permesso

 

Forse il nostro più grande errore è stato trasformare la felicità in una destinazione esotica da raggiungere dopo un lungo e faticoso viaggio. E la pressione di dover arrivare a tutti i costi ci ha sfiniti ancora prima di partire.

E se cambiassimo prospettiva? Se la felicità non fosse una meta, ma il modo in cui camminiamo? Se non fosse un grande evento spettacolare, ma la capacità di riconoscere la bellezza nei piccoli gesti quotidiani? Se, soprattutto, non fosse qualcosa da conquistare, ma un permesso da darci?

Il permesso di essere imperfetti. Il permesso di rallentare. Il permesso di non avere tutte le risposte. Il permesso di essere tristi, arrabbiati, confusi. Il permesso di giocare senza uno scopo, di ridere fino alle lacrime, di meravigliarsi per un tramonto.

La vera crescita personale non consiste nell'aggiungere nuove abilità al nostro repertorio, ma nel togliere i pesi che ci siamo caricati addosso: le aspettative, i giudizi, le paure. È un processo di liberazione. Smettere di cercare la felicità e iniziare a fare spazio affinché possa manifestarsi.

 

Aprire la porta: un passo alla volta, insieme

 

Tornare a uno stato di gioia più semplice e spontanea non significa regredire, ma evolvere verso una versione più saggia e autentica di noi stessi. È una scelta consapevole che possiamo fare ogni giorno.

Aprire la porta di quella prigione autoimposta può sembrare spaventoso. Siamo così abituati alle sue mura che la libertà ci appare vertiginosa. Ecco perché, a volte, avere qualcuno accanto in questo passaggio può fare la differenza. Qualcuno che ci aiuti a vedere la porta, che ci incoraggi a trovare la maniglia e che ci ricordi che siamo capaci di camminare da soli una volta fuori.

Questo è il cuore del percorso di counseling: un accompagnamento empatico e non giudicante per riscoprire le tue risorse interiori. Se senti che è arrivato il momento di smettere di complicare la tua felicità e di darti il permesso di viverla, possiamo iniziare a parlarne.

Un primo passo, senza impegno, è il colloquio online gratuito. È un'opportunità per noi di conoscerci e per te di capire se questo è il percorso giusto per te in questo momento. Se desideri maggiori informazioni, puoi sempre scrivermi tramite la pagina dei contatti.

La felicità è già dentro di te. Forse, ha solo bisogno che tu smetta di tenerla chiusa a chiave.

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