Impotenza appresa: quando si smette di credere di poter cambiare
Beatrice LencioniCondividi
L’impotenza appresa è la sensazione di non poter cambiare nulla, anche quando si potrebbe. Nasce da esperienze di blocco e fallimento ripetuto, ma si può superare riscoprendo fiducia, presenza e piccoli atti di scelta. Il counseling relazionale aiuta a ritrovare la propria forza interiore.
A volte la vita sembra metterci alla prova più del necessario.
Ti impegni, ti rialzi, provi a cambiare qualcosa — ma niente va come speravi. All’inizio ti arrabbi, poi ti scoraggi, e infine… smetti di provarci. È in quel punto silenzioso, dove l’anima si arrende, che nasce quella sensazione sottile e dolorosa di impotenza appresa: il credere di non avere più alcun potere sulla propria vita, anche quando in realtà la porta è rimasta socchiusa.
Non è debolezza, non è mancanza di volontà. È un riflesso di protezione.
È come dire a sé stessi: “Se tanto fa male, meglio non provarci più”.
E così, giorno dopo giorno, si impara a non sperare, a non rischiare, a non chiedere. Si impara perfino a non desiderare più.
C’è chi la chiama rassegnazione, chi la confonde con maturità. Ma in realtà è una forma di stanchezza profonda, il risultato di troppe battaglie interiori combattute senza sentirsi mai davvero visti o ascoltati.
Questa condizione ha un nome, ma soprattutto ha un volto umano. È la donna che sorride a tutti ma si sente invisibile. È l’uomo che non chiede più nulla perché “tanto nessuno capisce”. È chi ha imparato a sopravvivere riducendo la propria voce fino a farla sparire.
L’impotenza appresa non nasce in un giorno, ma si costruisce lentamente, come una goccia che scava la pietra.
Spesso le sue radici affondano nell’infanzia, quando un bambino non viene consolato, o non si sente creduto. Quando ogni tentativo di farsi ascoltare viene accolto con un “smettila di piangere” o “non fare storie”.
Altre volte cresce in adolescenza, quando ci si scontra con un mondo che pretende forza, successo, controllo.
E altre ancora, nell’età adulta, prende forma dentro relazioni dove l’altro decide, giudica, svaluta — finché anche la persona più solare comincia a dubitare di sé.
Con il tempo, quella voce che un tempo diceva “posso farcela” si trasforma in un sussurro stanco: “non serve”.
E il mondo perde colore.
Non si tratta di pigrizia, ma di una protezione emotiva: la mente, per evitare altro dolore, preferisce non tentare più.
È come se un interruttore si spegnesse.
Eppure, proprio lì dentro, in quel buio, continua a esistere una scintilla: la voglia di esserci ancora.
L’impotenza appresa si riconosce da piccoli segni, da abitudini silenziose.
Si rimanda tutto a domani, si accettano situazioni che fanno male “per non complicarsi la vita”, si chiede scusa anche quando non si è fatto nulla.
Si diventa bravi nel capire gli altri, ma incapaci di ascoltare sé stessi.
E spesso, dietro un’apparente calma, vive una rabbia trattenuta, una malinconia che non si sa più da dove venga.
Molte persone che incontro in un percorso di counseling arrivano così: con un senso di immobilità che non sanno spiegare.
Dicono: “So cosa dovrei fare, ma non riesco a farlo”.
E lì, sotto quelle parole, spesso c’è un’intera storia fatta di tentativi falliti, di silenzi accumulati, di fiducia perduta.
Uscire da questo stato non significa “diventare forti” o “pensare positivo”.
Non serve forzarsi a essere diversi da come si è.
Serve invece un movimento interiore di consapevolezza, un lento ritorno verso la propria voce.
Il primo passo è riconoscere che quella convinzione — “non posso cambiare le cose” — non è la verità, ma una memoria.
È la traccia di un passato in cui davvero non si poteva fare nulla. Ma oggi è diverso.
Oggi, forse, puoi.
A volte basta un piccolo gesto per riscoprirlo: scegliere di fare una passeggiata, scrivere una lettera mai spedita, dire un “no” dove prima avresti detto “va bene”.
Ogni atto di libertà, anche minuscolo, riattiva la fiducia sopita.
Perché la libertà non si conquista una volta per tutte: si esercita, giorno per giorno, come un muscolo dimenticato.
Chi ha vissuto a lungo nell’impotenza appresa ha bisogno, prima di tutto, di sentirsi visto.
Perché nessuno può rinascere da solo, se per anni ha dovuto sopravvivere nel silenzio.
Ecco perché, in un percorso di counseling relazionale, l’ascolto è la chiave.
Il colloquio diventa uno spazio dove poter dire, anche solo per la prima volta: “Mi sento bloccato.”
E non trovare risposte pronte, ma presenza.
Nel counseling, non si lavora per “aggiustare” una persona, ma per aiutarla a ritrovare la propria direzione.
Attraverso il dialogo, la riflessione e la connessione con le proprie emozioni, la persona scopre che la forza non va costruita: c’è già, solo che è stata dimenticata.
Spesso il corpo parla prima della mente: tensioni, stanchezza, respiro corto, insonnia.
Per questo, accanto al lavoro di ascolto, integro pratiche come la mindfulness, la meditazione o i Fiori di Bach: strumenti semplici che aiutano a rimettere in contatto corpo e cuore, riportando equilibrio e consapevolezza.
Quando l’ascolto diventa totale — corpo, emozioni, pensiero — si ricrea un senso di unità che apre la strada al cambiamento.
Mi capita spesso di dire che uscire dall’impotenza appresa non significa cambiare vita, ma ricominciare a scegliere dentro la propria vita.
Non serve fare cose straordinarie: basta tornare a esserci.
Essere presenti nei piccoli gesti quotidiani.
Accorgersi che, anche nelle giornate più stanche, c’è ancora un margine di libertà possibile.
È in quel margine che avviene la rinascita.
Un respiro dopo l’altro, una scelta dopo l’altra.
La fiducia non esplode, torna piano.
È come una fiamma che si accende di nuovo, anche se brucia timida, anche se il vento fa ancora paura.
Ricordo una donna che ho incontrato tempo fa.
La chiamerò Lucia.
Era sempre gentile, sempre disponibile, ma dentro sentiva di non avere più voce. “Tanto non serve a niente”, mi diceva spesso, con un sorriso stanco.
Durante i nostri colloqui, le ho chiesto di raccontarmi quando aveva cominciato a sentirsi così.
“Da piccola, quando piangevo, mi dicevano che ero esagerata. Poi a scuola mi prendevano in giro. Ho imparato a stare zitta.”
Ogni volta che raccontava un episodio, il suo sguardo cambiava: era come se si rendesse conto che la bambina dentro di lei non aveva mai smesso di cercare di essere creduta.
Con il tempo, Lucia ha cominciato a fare piccole cose diverse: ha ripreso a disegnare, a uscire da sola, a dire “no” senza sentirsi in colpa.
E un giorno, quasi per caso, mi ha detto: “Non so se sono guarita, ma mi sento viva”.
È stato in quel momento che ho capito che la guarigione non è un punto d’arrivo, ma un modo nuovo di stare nel mondo.
Quando una persona torna a sentire la propria presenza, anche il dolore cambia colore.
Diventa qualcosa che si può guardare, accogliere, comprendere.
Molti mi chiedono se dall’impotenza appresa si possa davvero uscire.
La mia risposta è sì, ma non come si immagina.
Non con una scossa improvvisa, ma con un lento ritorno a sé stessi.
Serve tempo, serve pazienza, serve fiducia — anche quando non la si ha più.
Ogni essere umano, anche dopo anni di immobilità, può tornare a scegliere.
Perché la vita, quando trova anche una sola fessura di consapevolezza, entra.
E non se ne va più.
L’impotenza appresa non è un difetto, è la prova che hai resistito.
Hai imparato a sopravvivere, e adesso puoi imparare a vivere.
Quando smetti di lottare contro di te e inizi a guardarti con compassione, qualcosa si scioglie.
E allora il cuore ti dice piano:
“Non devi più difenderti. Ora puoi esserci.”
Se ti riconosci in queste parole, se senti che qualcosa dentro di te chiede di tornare alla luce, puoi iniziare da un gesto semplice: parlarne.
Un colloquio gratuito può essere il primo passo per riaprire quello spazio di fiducia dimenticato.
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Oppure scrivimi direttamente dalla pagina dei contatti.
A volte basta un’ora di ascolto per far entrare aria nuova in una stanza che da troppo tempo è chiusa.
E ricordati: non sei solo in questo cammino.
Perché la vera libertà non è non avere più paura, ma sapere che anche con la paura puoi ancora scegliere di esserci.