educazione emotiva adulti | Counselor Torino

Crescere con un genitore anaffettivo: quando impariamo a non sentire

Beatrice Lencioni

Ci sono frasi che ho detto per anni, senza nemmeno accorgermene.
“Va tutto bene.”
“Meglio farcela da soli.”
“Non voglio dare fastidio.”

Erano il mio modo di stare al mondo, la mia corazza.
Mi facevano sentire forte, autonoma, indipendente.
Solo col tempo ho capito che quelle frasi erano in realtà una lingua antica — il linguaggio dell’adattamento emotivo.
Le avevo imparate da bambina, in una casa dove le emozioni non avevano cittadinanza, dove la tenerezza era una distrazione e il bisogno un difetto da correggere.

Non c’era cattiveria. C’era solo distanza.
Un genitore anaffettivo non è una persona che non ama, ma qualcuno che non sa come farlo vedere.
Lo sguardo sfugge, il tono si irrigidisce, le parole si fanno pratiche, concrete, fredde.
“Non piangere.”
“Non fare così.”
“Non è niente.”
Così impari presto a non disturbare, a non chiedere, a non sentire troppo.

 

Crescere con un genitore anaffettivo è come vivere in una casa piena di suoni ma senza musica.
Ci sono le parole, ma mancano le note.
Ci sono i gesti, ma senza calore.
C’è la presenza fisica, ma non quella emotiva.

Da bambina cercavo lo sguardo che non arrivava, la voce che non cambiava tono, l’abbraccio che restava sospeso.
Così ho imparato a cavarmela, a indovinare ciò che gli altri si aspettavano da me, a diventare brava a tutto: a scuola, nei comportamenti, nei silenzi.
Ho imparato a essere “quella che non crea problemi”.

È lì che nasce quella frase che tanti adulti ripetono senza sapere perché: “Non voglio dare fastidio.”
È il modo in cui un bambino impara a proteggere il proprio bisogno d’amore: facendolo sparire.

 

Quando da adulta ho iniziato a lavorare come Counselor Relazionale, ho scoperto che quella frase non era solo mia.
La ritrovavo nelle parole di molte persone sedute davanti a me.
Donne e uomini che si raccontavano forti, resilienti, sempre disponibili per gli altri — eppure, quando si trattava di ricevere, si bloccavano.

È un filo invisibile che unisce molte storie: il timore di disturbare, di chiedere troppo, di essere un peso.
Un filo che si intreccia a un’eredità emotiva fatta di assenza e di adattamento.

“Non voglio dare fastidio” diventa così il modo più elegante per dire “non credo di meritare attenzione”.
Eppure, nessuno dovrebbe sentirsi di troppo nel proprio bisogno.

 

Ricordo ancora il giorno in cui, durante una formazione, mi fecero una domanda semplice:
“Chi si prende cura di te?”

Non seppi rispondere.
E non perché non avessi persone accanto, ma perché non sapevo come lasciarmi accudire.
L’autonomia mi era diventata una seconda pelle, ma dentro quella pelle c’era il gelo di chi non ha mai imparato a ricevere calore senza sentirsi in debito.

Molte persone che crescono con genitori anaffettivi sviluppano proprio questo: una straordinaria capacità di dare, ma un’incapacità altrettanto grande di ricevere.
È come se l’amore dovesse essere sempre un gesto di compensazione, mai di semplice presenza.

 

Ho imparato che l’anaffettività non si eredita nei geni, ma nel linguaggio.
Ci viene trasmessa nel modo in cui impariamo a chiamare (o a non chiamare) le emozioni.
In famiglie dove si parla di tutto, tranne che di come ci si sente.
Dove “ti voglio bene” è un gesto implicito, ma mai pronunciato.
Dove si preferisce “fare” invece che “essere”.

Così diventiamo adulti con un cuore che sente troppo, ma una mente che non sa cosa farsene.
E quando proviamo a spiegare cosa sentiamo, le parole non bastano.
“Non so come dire quello che provo.”
“Mi sento confuso.”
“Mi sembra di esagerare.”

È il linguaggio di chi non ha avuto specchi emotivi in cui riconoscersi.
Nessuno gli ha mai detto “capisco come ti senti”, “è normale essere triste”, “puoi piangere, ci sono io”.
E allora quelle parole mancano, come mancano gli strumenti per dare forma a ciò che si muove dentro.

 

Nel mio percorso personale ho scoperto che riconoscere l’anaffettività non serve a cercare colpevoli, ma a interrompere un’eredità.
Molti genitori anaffettivi, infatti, sono stati a loro volta figli invisibili, cresciuti in case dove l’amore era un dovere o una forma di disciplina.
Portano dentro lo stesso vuoto che hanno trasmesso, senza accorgersene.

Per anni ho cercato di riempire quel vuoto con il fare: studiare, lavorare, aiutare, comprendere.
Ma il vuoto non si riempie di azioni, si ascolta.
È una stanza che si riapre solo quando smetti di scappare.

Ho dovuto imparare da capo a dare un nome alle emozioni, a dire “oggi sto male”, a chiedere aiuto senza vergogna.
All’inizio mi sembrava un tradimento verso quella parte di me che aveva costruito tutta la sua identità sulla forza.
Poi ho capito che quella non era forza, ma solitudine.

Oggi, quando accompagno qualcuno nel suo percorso di counseling, riconosco nei suoi silenzi il bambino che stava in silenzio per non disturbare.
Riconosco in ogni “va tutto bene” un grido educato.
Riconosco che dietro la rabbia, la freddezza o l’indifferenza si nasconde sempre una forma di amore rimasta intrappolata.

La guarigione inizia quando quel bambino interiore smette di chiedere al passato ciò che il passato non può più dare, e comincia a ricevere da sé e dagli altri ciò che finalmente è pronto ad accogliere.
Non è un processo veloce, né lineare.
Ma è reale.

L’educazione emotiva serve proprio a questo: a creare un linguaggio dove non c’era, a dare parola a ciò che è rimasto sospeso, a trasformare la difesa in presenza.

Non si tratta di imparare a “controllare” le emozioni, ma a riconoscerle, ad abitarle, a lasciarle fluire.
Quando impariamo a dire “sono arrabbiato”, “mi sento solo”, “ho paura”, non stiamo diventando fragili: stiamo diventando interi.

 

Crescere con un genitore anaffettivo non definisce chi siamo, ma ci mostra da dove partiamo.
Ci spinge, a volte con dolore, verso una ricerca più profonda: quella della connessione vera.
Ho incontrato molte persone che portavano lo stesso segno invisibile: il bisogno di essere viste, di essere scelte, di essere finalmente amate senza dover meritare nulla.

E quando quel bisogno trova spazio, qualcosa cambia.
Si comincia a respirare in modo diverso, a parlare in modo diverso, a scegliere relazioni che non chiedono di “funzionare”, ma di essere.
La distanza diventa presenza, il silenzio diventa parola, l’anaffettività si trasforma in una nuova possibilità di vicinanza.

 

Oggi so che dire “non voglio dare fastidio” non mi rende gentile, mi rende invisibile.
Dire “va tutto bene” non mi rende forte, mi rende sola.
Dire “meglio farcela da soli” non mi rende libera, mi tiene in gabbia.

Così ho cominciato a cambiare linguaggio.
Ho imparato a dire:
“Ho bisogno di te.”
“Non va tutto bene, ma posso parlarne.”
“Non voglio più farcela da sola.”

Sono frasi che spaventano, ma liberano.
Frasi che aprono varchi dove prima c’erano muri.
Frasi che restituiscono dignità al sentire.

E da lì, piano piano, la vita ricomincia a farsi calda.
Non perfetta, ma vera.

 

Se leggendo queste parole hai riconosciuto qualcosa di tuo, sappi che non sei solo.
Non è mai troppo tardi per imparare un nuovo linguaggio affettivo.
Nel percorso di counseling relazionale che propongo su beatricelencioni.it, lavoriamo proprio su questo:
sulle radici del silenzio, sulla paura di disturbare, sulla difficoltà di sentire.
È uno spazio di ascolto e presenza dove puoi tornare a sentirti intero, accolto, reale.

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Perché la guarigione comincia sempre da una parola che finalmente riesci a dire.

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